dall’articolo di Marisa Grande, “Tra opinione e verita’”, pubblicato dalla rivista ANXA Numero 69 – maggio/giugno 2014
Limiti tra opinione e verità
La separazione tra opinione (doxa) e verità (alétheia) fu oggetto di dispute sin dal tempo dei primi filosofi greci, i quali avevano rifiutato le spiegazioni mitologiche per giustificare l’origine e la scomparsa dal mondo di tutte le cose della natura. Ciò richiedeva una ricerca necessaria a rendere meno opinabile il sapere intorno alla nascita dei fenomeni e dell’universo. Essi intesero, perciò, risalire all’arché, ossia all’origine, per pervenire ad una conoscenza innegabile, incontrovertibile, assoluta, immutabile nel tempo, a cui dettero il nome di sophia (sapere), di logos (ragione), di alétheia (verità), di epistème (scienza).
Estendendo i medesimi principi che regolano i fenomeni percepibili, applicarono il rigore della loro ricerca sulla materia primaria dell’universo e sulla struttura del cosmo alla natura e alla funzione dell’anima e alla moralità umana.
Da Talete di Mileto (624 -548 a. C) a Parmenide di Elea (515/510 a. C. – 540 a. C.), ad Aristotele (384-322 a. C.), ad Archimede (287-2012 a. C.) si andò delineando un processo di conoscenza che risaliva alle cause, secondo un metodo che oggi si ritiene essere stato una premessa per quello moderno.
Platone definì Parmenide «venerando e terribile», per il rigore che contraddistingueva il suo metodo della “non-contraddittorietà dell’essere e del pensiero”, che si basava su una stringente logica formale. Nel “Poema sulla natura” egli si era fatto guidare dalla dea della giustizia Dike, garante dell’ordine cosmico e dell’ordine logico, per essere condotto lungo la via della sapienza verso il «cuore inconcusso della ben rotonda verità». Ispirandosi ai pre-socratici, che avevano cercato l’origine della mutevolezza dei fenomeni in un principio statico, Parmedide, per esprimere la verità scientifica, aveva fatto ricorso ad una forma di pensiero-essere, che egli associava all’aspetto espressivo dell’essere occulto. Cercando la verità tramite un metodo razionale era risalito ad un principio unico e immobile, ingenerato ed immortale, indivisibile ed eterno, compreso per “necessità” nel limite di uno spazio perfetto e compiuto come quello chiuso e uniforme di una sfera.
Albert Einstein, muovendosi nel XX secolo sullo stesso piano della razionalità, per dimostrare che l’ordine cosmico deriva dall’ordine logico, si basò su rigorose formule matematiche e pervenne alla formulazione di quella Teoria della relatività, di cui ancora oggi si cercano le conferme sperimentali in relazione alle onde gravitazionali primordiali. Anch’egli, come Parmenide, concepì l’universo di forma sferica, non essendo possibile immaginare una forma migliore per contenere l’essere perfetto da cui era derivato l’universo. Nella concezione razionale del cosmo, a partire da quell’unità primordiale estremamente compressa ipotizzata nella teoria del Big bang, fino al modello di universo illimitato, ma finito, si ricorre all’immagine della sfera, non potendo la mente umana concepire nulla d’imperfetto da relazionare a quel “principio perfetto” dell’origine, malgrado che le osservazioni del fondo cosmico rimandino ad un modello modificato rispetto alla perfezione della sfera (Anxa 1-2 Gennaio-Febbraio 2014).
La sintesi degli opposti
Nella disputa tra Parmenide e i filosofi orientati a considerare il processo di trasformazione proprio del divenire nei fenomeni naturali e nella storia, egli considerò l’opinione una forma impropria dell’uomo ad accostarsi alla verità, essendo i sensi ingannatori e costruttori di una forma illusoria della realtà.
A differenza degli intransigenti suoi discepoli eleati, però, Parmenide assunse un criterio più equilibrante nella contrapposizione tra verità, scaturita dalla ragione, e opinione, scaturita da una conoscenza fallace, limitata ai soli sensi. Tra una natura composta dal molteplice in continuo mutamento, oggetto delle dispute tra filosofi del divenire e il concetto di verità assoluta, forma perfetta e immutabile del “pensiero-essere”, Parmenide rifletté e ammise che i fenomeni (dokùnta) non potevano essere pensabili come negazioni a priori della verità. Li considerò, perciò, come manifestazioni apparenti del fondamento occulto e autentico dell’essere e, di conseguenza, anche le opinioni su di essi, potevano essere plausibili e degne di essere ascoltate, come gli aveva suggerito la dea della giustizia, ai fini di «imparare come anche l’esistenza delle apparenze sia necessario ammetta colui che in tutti i sensi tutto indaga».
Eraclito, filosofo del “divenire” e assertore dell’osservazione dei fenomeni tramite i sensi, pur partendo dalla posizione opposta rispetto alla “filosofia dell’essere” di Parmenide, in considerazione che non potesse esistere un fenomeno di natura se non in virtù dell’esistenza del suo contrario e che entrambi, pur scontrandosi, si unificano, pervenne anch’egli ad una rara sintesi. Rifacendosi alla “dottrina dei contrari” in continuo conflitto (polemos) e alla loro fusione armonica riconobbe in tale sintesi un’unità assoluta, una singolarità perfetta che non poteva che coincidere con il concetto di perfezione del divino.
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